lunedì 16 aprile 2012

primi passi verso il BANG

Intervista a TOYO ITO di Matteo Belfiore e Salvator John Liotta
Il testo che segue rappresenta un estratto del volume che sarà pubblicato dalla casa editrice Clean nella collana Interviste a cura di Matteo Belfiore e Salvator John Liotta.

M.B. - Una sua grande passione è il baseball. In che modo lo sport ha formato ed influenzato il suo carattere?

T.I. - Il baseball mi piace moltissimo, l’ho praticato fino al completamento delle scuole superiori ma adesso lo guardo solamente perché non ho più il tempo di praticarlo. E’ uno sport formativo perché si gioca in team e questo impone uno spirito di collaborazione a chi lo pratica. Mi ha aiutato molto a confrontarmi con gli altri, ha avuto un’ influenza positiva sul mio carattere. 


M.B. - Come ha iniziato il mestiere dell’architetto e quali sono state le sue prime esperienze professionali?

T.I. - Ho aperto il mio studio quando avevo 29 anni. Di solito, i primi incarichi professionali riguardano case private, architetture piccole di vario genere, bar, arredamenti di negozi. Personalmente ho progettato le case di alcuni amici miei e dei miei genitori e qualche edificio commerciale di piccole dimensioni. Per lungo tempo ho fatto questo tipo di lavori. Ho costruito il mio primo edificio pubblico nel 1988, quando avevo 47 anni.

M.B. - Nella sua visione del futuro, natura e tecnologia saranno una cosa sola. Ci chiarisce questo suo pensiero?

T.I. - Provo a dare una spiegazione partendo dai sistemi biologici. Se guardiamo al mondo della natura, come l’acqua che scorre, o i flussi del vento, o alla forma degli alberi, o alle forme viventi ci rendiamo conto che non vi è la presenza di angoli retti. Allora mi chiedo: perché i fiumi non scorrono in linea retta? Perché i rami degli alberi non si diramano usando angoli a novanta gradi? L’architettura invece usa quasi sempre gli angoli retti e quando non lo fa, usa le forme circolari facendo uso di una geometria elementare, di una geometria spontanea, ingenua potremmo dire. Per quanto mi riguarda, ritengo che la vita degli uomini sia stata influenzata dal mondo della natura. Più mi avvicino alla complessità del sistema naturale, più spontaneamente cerco di usare una geometria che esprima una architettura vicina al mondo della natura. Ed è per questo che l’uso del computer, con il quale si possono compiere dei calcoli complessi, ci ha dato maggiori possibilità di avvicinarci di più ad un’ espressione “naturale” che appartiene più al 21° secolo che a quello precedente. Trovo questo pensiero particolarmente eccitante.

M.B. - L’artista coreano Nam June Paik afferma che la video arte imita la natura, non nel suo aspetto o nella sua dimensione, ma nella sua intrinseca struttura temporale. In che modo la sua architettura imita la natura?

T.I. - Il primo problema riguarda il trascorrere del tempo. Ciò significa che il mondo della natura non ferma mai la sua evoluzione, pulsa sempre, in essa tutto si muove e muovendosi cambia di continuo. Quando e come l’architettura si inserisce in questa situazione? Innanzitutto, ritengo che in questo processo l’architettura non vi rientra sempre e a priori ma acquista una sua ragione d’esistere solo quando riesce ad instaurare relazioni con la natura ogni qual volta la natura stessa pone all’architettura dei problemi. Concedetemi un esempio che permetterà di capire facilmente cosa intendo dire. Sappiamo che l’acqua d’un fiume scorrendo dentro gli argini determina una corrente. Se provo a mettere dentro questa corrente un palo, si cominceranno a formare dei piccoli mulinelli in quella particolare zona del fiume. Ancor più della corrente – che rappresenta la condizione dinamica iniziale - come architetto sono interessato a questi vortici che si vengono a formare attorno al palo, a ciò che la presenza del palo è capace di produrre e mutare nella condizione originaria, nella immagine del fiume che comunque continua a scorrere.
In generale, quando gli architetti costruiscono un palazzo è come se piantassero un palo all’interno del tessuto urbano che si può assimilare al grande flusso d’acqua che scorre. Certo, esso è più lento nel trasformarsi e non ha la stessa fluidità della corrente. Sicuramente, non arrivo a pensare che i palazzi che costruiamo possano muoversi. Per analogia con il palo e la corrente del fiume, voglio dire che quel palazzo inserito in un tessuto urbano determina un cambiamento in quel posto mentre tutto il resto resta immutato. Io sono interessato al cambiamento del tessuto urbano in quel punto, ai mulinelli, sono interessato alle relazioni con il contesto, ai flussi che danno forma alla natura e alla vita. 

M.B. - Ci sono edifici che restano moderni per sempre, altri che lo sono per un periodo limitato. Come deve essere un edificio per essere considerato eternamente moderno?

T.I. - Ho già detto come 10 o 20 anni di vita per le mie architetture vadano piuttosto bene. Pur non avendo una “coscienza volontaria” della tradizione giapponese, ho però un grande interesse per i modi di vita contemporanei e penso che noi stiamo sempre più esprimendo al meglio lo spirito della modernità. Non si tratta di far tornare il passato in vita, si tratta forse più di captare le energie della contemporaneità, del tempo nel quale viviamo, semplicemente perché queste energie sono oggi le più intense. Il problema è quello di canalizzare queste esperienze e trasformarle in espressioni architettoniche, sapendo che magari queste stesse espressioni che oggi sono così pregnanti, dopo dieci anni cambieranno forma. Ad ogni modo, queste energie rimangono all’interno dell’architettura, e quindi la miglior architettura moderna è quella che contiene lo spirito della modernità. Sembra un gioco di parole, un paradosso, ma lo spirito è ciò che anima sia il nostro tempo che le nostre architetture, e di conseguenza gli edifici moderni sono quelli che comunicano questo spirito del tempo. Quando guardo la villa di Katsura, essa oggi appare “moderna” perché quando fu costruita era un’opera di avanguardia. È stata una costruzione realizzata con grande coraggio ed è questo spirito che si sente ancora. Forse è proprio questo che impressiona e la fa ammirare per la sua modernità. Se oggi volessimo imitare la villa di Katsura, ciò non sarebbe possibile perché qualcosa o molto della vita di quel tempo è andato perso e noi non lo possiamo riprodurre. Forse è per questo che voglio che il passato non ritorni o che, comunque, non si torni al passato.

M.B. - Come si cattura l’essenza delle contemporaneità per trasformarla in teorie e progetti?

T.I. - Quando cammino per la strada, guardo come la gente si veste, da quali cose sono attratte. Se vedo qualcosa di veramentefashionable, più che su me stesso, penso alla reazione che questo oggetto produce sugli altri, se essa in quel momento si rende manifesta in qualche modo, e se io percepisco questa reazione, essa istantaneamente si traferisce su di me e diviene un mio “problema”. Per esempio mi chiedo come mai i giovani di oggi vivano con i loro genitori e non pensino a farsi una vita propria. Come mai non vogliono diventare più liberi? Se solo loro volessero diventare più indipendenti e avere un loro spazio, quanti architetti, invece che sprecare le loro energie a disegnare case per famiglie tradizionali, potrebbero esprimersi in modo nuovo tenendo conto di questo fenomeno sociale? Ma più che questo, mi chiedo cosa occorra per rendere più profonde le relazioni delle “famiglie” e fra le “famiglie” composte da una sola persona. E mi domando: per non far pesare il fatto di vivere da soli, da un punto di vista sia di consumi energetici che di relazioni sociali, che tipo di case dovremmo costruire oggi? Quando penso a questo problema, ritengo che si profilino tantissime possibilità. Ed è questo il tema su cui mi piace riflettere, perché è un tema importante della modernità. Quando guardo i giovani di oggi, cerco di capire i loro modi di relazione, cerco di capire cosa conti davvero nella loro vita.

M.B. - Oggi si dice spesso che bisogna dimenticare Vitruvio, per dire che firmitas, utilitas e venustas non sono più sufficienti a progettare e descrivere l’ architettura contemporanea. Lei è d’accordo con questa idea?

T.I. - Non penso che sia un bene dimenticarlo, perché si tratta di un grande insegnamento. Ciò non di meno, il suo insegnamento appartiene ad un’altra epoca, dove il problema delle strutture e delle forze in gioco erano differenti. Sono interessato alla struttura architettonica, e cerco di sapere tutto sull’evoluzione dei nuovi sistemi costruttivi e strutturali. Questa è la ragione per la quale fin dalle prime fasi d’un nuovo progetto cerco di lavorare a stretto contatto con gli ingegneri strutturisti con i quali avanziamo confrontandoci ripetutamente. Nel XX secolo è cambiato sensibilmente il concetto di funzione. Tra l’altro, non è una parola che amo usare. Non mi piace pensare che devo costruire un certo numero di spazi in accordo con un certo numero di funzioni. Preferisco pensare che sto costruendo per le persone e non una funzione prevista dal programma. In definitiva, penso che il senso di queste tre parole sia profondamente cambiato da quando sono state pronunciate la prima volta. Ciò non esclude che abbiano un’ enorme importanza perché esprimono l’essenza dell’architettura.

M.B. - È possibile parlare di architettura forte e debole? Una che si impone e l’altra che si espone? Un modo maschile o femminile di interpretare le forme? Vi è una relazione fra linee curve del corpo e dei palazzi? La sua opera si ispira alla natura, solo a lei, o anche a “madre natura”?

T.I. - In primis non penso che si possa parlare della relazione fra il corpo delle donne e l’architettura come di un problema formale. Per me la sensualità è qualcosa che valuto molto e ho in alta considerazione. Mi allontano un pò dalla domanda e dico qualcosa sull’amore, argomento che normalmente gli architetti tacciono, o forse sul quale nessuno li interroga. Per esempio quando faccio l’amore, per me è come avere a che fare con l’aria. (ride). È difficile da spiegare, ma comunque ci provo. Per esempio, quando bevo del sakè e e sono con un donna, una certa immagine di vaghezza, di spirito indefinito si impadronisce di me, e quindi facendo l’amore mi proietto in una dimensione di estasi: questa è una cosa nella quale mi trovo a mio agio, è così morbida, così sensuale, che rispecchia l’immagine e lo spirito che governano e inspirano maggiormente l’architettura che vorrei realizzare. Che dirvi: non lo so se vi sia una relazione diretta fra forme e sentimenti, forse è un tema che andrebbe indagato maggiormente, però so che quando parlo con degli italiani e siamo in compagnia femminile, non conoscendo la lingua italiana, non ho la più pallida idea di cosa si stia dicendo. Ad ogni modo, quando ascolto voi italiani, mi sembra di sentir leggere sempre un libro di poesie che produce in me estasi e mi rilassa. Questo accade perché la lingua italiana risulta molto sensuale alle mie orecchie.

M.B. - Mi pare di capire che lei crede molto nella capacità emotiva dell’architettura che è una forma d’arte e come tale agisce sui sentimenti. Qual è il suo rapporto con l’arte?

T.I. - Non so se possiamo parlare a stretto rigore di qualcosa di artistico. Come dicevo prima, le mie architetture mirano a rendere le persone più libere, più libere rispetto all’ordine costituito. E quando uso questa pratica di vita ispirata alla libertà, vedo che si riesce a comunicare più direttamente con le persone, con maggiore efficacia, perché si instaura una simpatia comune, un sentimento empatico tra spazio e persone. Quindi, la prima cosa che mi interessa non è la bellezza. “Mi piacerebbe che la biblioteca dove mi trovo adesso, sia in futuro una biblioteca più libera”, “Mi piacerebbe che si possano fare più cose liberamente nello spazio che andremo a progettare”. Sono questi i pensieri che mi risuonano nella testa quando progetto. È questo il sentimento che ho avvertito nelle persone per le quali ho progettato la mediateca di Sendai, è questo il valore che intendo promuovere con la mia architettura.

M.B. - Gli architetti occidentali immaginano lo spazio come strettamente connesso alla funzione che accoglierà. In Giappone la concezione dello spazio è differente. Potrebbe chiarirci meglio questo aspetto ed illustrarci in modo in cui esso è declinato nel suo lavoro?

T.I. - Senza dubbio, il concetto di modernità del XX secolo ha dei profondi legami con la funzione: da una parte, v’è stata l’idea che lo spazio segua la funzione, ma v’è anche la possibilità inversa, ovvero che la funzione segua lo spazio. Se considerate l’architettura tradizionale giapponese, in un solo spazio come l’ oku-no-ma, potevano avere luogo più funzioni, senza per questo dover dividere questo spazio in tante stanze e ad ognuna assegnare un ruolo specifico. In concordanza con le stagioni, si divideva in un certo modo, in concordanza con certi eventi si aprivano delle porte e se ne chiudevano altre, incidendo così soltanto temporalmente sulla definizione generale di un volume. Gli spazi che davano verso nord erano pensati rispetto a questa specificità, così come in modo peculiare venivano pensati quelli che davano verso sud, ma questo succedeva anche sia con l’entrata e sia con l’“oku-no-ma”: in ognuno si potevano esprimere spazialmente più cose, senza per questo avere una risoluzione definitiva del layout della spazio in questione.
A me questo modo di pensare piace in relazione al fatto che siamo in presenza di uno spazio dove la flessibilità predomina: ritengo ciò un fattore positivo. Sendai, per esempio, si ispira a questo concetto perché a qualunque piano si vada ci sono sempre sia la biblioteca che la galleria che il posto dove guardare i video. Basta prendere in prestito gli strumenti necessari e tutti gli spazi di Sendai possono essere usati per svolgere tutte le funzioni che ho appena elencato. Questo è il grado di flessibilità che cerco di raggiungere. Ho basato la mia visione della mediateca sulla facilità con cui cambiano le immagini trasmesse nei videoclip e sul grado di accessibilità che regala Internet. Tra l’altro, quest’anno la mediateca compie sei anni e stiamo già pensando a rinnovarla, perché comincia a non rispondere con la necessaria celerità ai cambiamenti.

M.B. - Dopo appena sei anni ha veramente bisogno di essere rinnovata?

T.I. - Dopo averla usata intensamente in questi anni, penso di si, che sia arrivato il momento di cambiare. Ora che abbiamo acquisito una certa esperienza, abbiamo capito che certi spazi vanno ripensati nella funzione. Stiamo lavorando sulla possibilità di assimilare gli spazi della mediateca a quelli di un parco: potersi riparare sotto un albero se c’è troppo sole, oppure, potersi sedere sull’erba se non ha piovuto. Insomma, stiamo ripensando ad essa come ad un qualcosa che faccia “sentire” la natura.

M.B. - Lei ha parlato di architettura sensoriale. In che modo un edificio può reagire ai sensi dell’uomo o provocarne reazioni? Può farci un esempio di come agiscono i suoi edifici?

T.I. - Quando un certo numero di persone si incontra in un posto, immagino che lo spazio che li ospita sia di dimensioni conformi al numero e ben illuminato. Se invece una coppia si incontra per un appuntamento galante, allora forse è meglio avere uno spazio più piccolo e tranquillo e con una luce soffusa. D’altronde, è l’istinto che guida gli animali a muoversi verso spazi differenti, in accordo con il bisogno che hanno in quel dato momento. Tutto ciò avviene quando ci troviamo nel mezzo alla natura. Quando siamo invece dentro ad un’architettura dove in un certo posto si può soltanto leggere un libro e in un altro si può soltanto guardare dei video, allora lo spazio diventa qualcosa che nega la libertà perché lì si può fare soltanto ciò per cui è stato pensato, una sola funzione per un solo spazio, appunto. Vorrei invece che i miei progetti potessero dare ad ognuno la possibilità di scegliersi cosa fare in uno spazio in accordo con la sensibilità, i desideri, le emozioni d’un certo momento. Per questo voglio che Sendai assomigli ad un parco, ad un posto che, anche se chiuso, possa regalare lo stesso feeling di un parco di natura che invece è aperto.

M.B. - Nell’arte marziale si dice che quando si diventa maestri non si sfida più il nemico ma se stessi. Ora che in architettura lei è un maestro, qual’ è la sua sfida?

T.I. - A dire il vero, non penso di essere maestro in niente (ride). In più non ho mai nemmeno praticato il judo. Però, come sapete, sia in questa disciplina che nel Kendo, se sono io che attacco, per vincere devo “sovrastare” l’energia del mio avversario. Ma se ad attaccare è l’avversario, allora in questo caso, per vincere sono io che devo “tirare” a me la sua energia, sono io che devo usare la sua energia. Questo è il significato più importante del kendo e del judo: saper raccogliere ed usare la potenza e la forza dell’avversario.

M.B. - Più specificamente e con riferimento al progetto, qual è la sua sfida oggi?

T.I. - Progettare in un modo nuovo. Mi piacerebbe cambiare proprio l’idea generale del fare architettura. Anche se adesso non ho una risposta definitiva, so che da qualche parte la risposta esiste. Cercherò di esporre la mia idea in modo semplice. Oggi sembra che l’uomo stia fermo, sembra che stia in posa, la sua forma è statica. L’architettura che produciamo è ispirata a questo tipo di uomo “pietrificato”. Secondo me invece, tutto ciò che ci circonda è instabile, dinamico, e gli uomini oggi si muovono e viaggiano più che mai. Sono interessato alla ricerca non della stabilità ma dell’equilibrio, che è qualcosa di diverso. Il primo termine presuppone la stasi, l’altro il movimento. Sono alla ricerca di un’architettura che coniughi questi due aspetti: il movimento e la ricerca.

M.B. - Ha in mente una lista di temi nuovi per l’architettura? Una lista da offrire ai giovani architetti contemporanei? Che consigli darebbe ad un giovane all’inizio della carriera di architetto?

T.I. - Un nuovo tema in architettura penso che oggi sia la complessità dei flussi che attraversano lo spazio. E per produrre questo tipo di spazio credo che sia necessario un nuovo tipo di geometria. Fino ad adesso abbiamo progettato e costruito usando la geometria euclidea, ma d’ora in poi forse ce ne servirà una con meno linee e solidi perfetti. Diviene quindi fondamentale sapere come produrre nuovi tipi di spazio avendo coscienza di nuovi strumenti geometrici. Ho una certa età e non so come andranno le cose nel futuro, ma invito i giovani che lavorano nel mio studio ad insistere in questa direzione. Certo, non v’è solo questo: non vanno dimenticati l’uomo e il comunicare, soprattutto un comunicare con chiarezza.

M.B. - Ci parla dei suoi famosi quaderni delle idee dove appunta tutto ciò che le viene in mente? Potrebbe mostrarcene uno?

T.I. - Mi dispiace ma i miei quaderni non li mostro a nessuno (ride), nemmeno allo staff con cui lavoro ogni giorno gomito a gomito. Comunque, si tratta di quaderni di grandezza B5 che usano i ragazzi quando hanno 10 anni. Qui vi scrivo tutti i miei concetti, le cose che mi passano per la mente, vi appunto delle idee, ad ogni modo si tratta di cose appena abbozzate. Quando abbiamo i meeting con lo staff, disegno un po’ meglio qualche concetto su di un foglio A4 e lo passo ai miei collaboratori. Preferisco tuttavia non disegnare per loro più di tanto.

M.B. - Ci elenchi quelli che lei ritiene 5 capolavori e 5 maestri dell’architettura italiana.

T.I. - Se si tratta di architetti che appartengono alla vostra storia, mi piace Palladio. Il suo San Giorgio è veramente fantastico ed anche la Villa Malcontenta. Ogni volta che sono stato a vederla mi ha sempre impressionato. Poi c’è la meravigliosa Biblioteca Laurenziana di Michelangelo. Fra le cose più recenti, fra quelle di quando ero più giovane, vi sono alcune cose del Superstudio. I loro progetti degli anni ’70 mi lasciavano senza parole, erano proprio eccezionali. Era il periodo in cui anch’io avevo aperto lo studio. Fra gli architetti contemporanei, quello che mi piace adesso è Andrea Branzi che aveva cominciato con lo studio Archizoom per poi mettersi in proprio. Di recente assieme abbiamo fatto delle cose in Belgio per una sala concerti a Gand. Ricordo quel periodo con piacere perché il progetto stesso era entrato a fare parte della nostra essenza. Il modo di pensare di Branzi era molto fantasioso e mi interessava molto.

M.B. - Un libro, un film, una canzone che hanno cambiato il suo modo di vedere.

T.I. - Più che singole canzoni è la musica che ha cambiato il mio modo di vedere la vita. C’è un compositore giapponese contemporaneo che amo che si chiama Toru Takemitsu. Peccato che lui sia già morto da circa dieci anni, perché con le sue composizioni riusciva a travalicare le frontiere dell’emozione. In particolare, mi piacevano le musiche per film che componeva. Ogni tanto scriveva anche delle canzoni più pop e per la mia recente mostra “New Real in Architecture” ho fatto uso proprio di una sua canzone come musica di sotto fondo. Per quanto riguarda i film, di recente non riesco a trovare più il tempo per vederne. Ma quando ero più giovane, una trentina di anni fa, mi piaceva tanto andare a vedere i film al cinema e mi incantavano in particolare quelli di Godard.

M.B. - Una frase che lei ripete spesso e se stesso.

T.I. - Più che a me stesso c’è un frase che ripeto spesso allo staff : “ganbare!” che significa: forza ragazzi, andiamo avanti! A me stesso dico: “Cerca di vivere allegramente, per favore”.


Nessun commento:

Posta un commento